Missed Calls

Arno Beck. Il tradimento delle immagini

Per la prima mostra personale negli spazi della galleria Nicola Pedana, Arno Beck presenta una nuova serie di opere che mettono in dialogo l’immagine digitale con la sua riproduzione analogica. L’artista dipinge composizioni astratte che sembrano state generate da un software, ma che in realtà sono frutto di un processo pittorico che preserva l’ambiguità sulla provenienza dell’immagine stessa. Partendo da una riflessione sulla pittura nell’era del digitale, Beck si muove al confine tra le due dimensioni, giocando sulla simulazione e avvalendosi di tecniche diverse che dalle quali emerge uno scambio continuo tra la mano e la macchina, espressione della realtà nella quale viviamo.

Che cos’è un’immagine? Segno, forma, rappresentazione. Le immagini dominano il mondo in cui viviamo ma non sempre si rivelano per quello che sono: sono un artificio del pensiero, sia che ritraggano qualcosa che ha posato davanti un obiettivo, sia che generino una forma immaginaria. L’ambiguità che ogni immagine racchiude – lo dichiarava già René Magritte nel suo Ceci n’est pas une pipe – è al centro del lavoro di Arno Beck, pittore di formazione che ha ben presto iniziato a sperimentare il potenziale delle immagini create nell’universo digitale. Disegnare su una tavoletta non è che un altro modo per generare forme, tuttavia l’”essenza” di queste immagini – se tale si può definire – è destinata a restare un codice numerico, intrappolato in un dispositivo hardware. Beck ha dunque messo in atto negli anni un processo di traslazione che dallo schermo approda alla realtà fisica, servendosi di macchinari utili a trasferire il segno computerizzato in una forma pittorica. Un percorso che dal digitale conduce all’analogico, tracciando una strada inversa a quella più comunemente battuta. In questa ultima serie di lavori, Beck compie un passaggio ulteriore: eliminata la mediazione della macchina, torna alla pittura manuale nel tentativo di recuperare un rapporto più diretto con la realtà fisica, che includa anche errori e imperfezioni assenti nella pura replica meccanizzata. Rimanendo nel contesto di una riflessione sul ruolo della pittura nell’era digitale, Beck assume dunque un nuovo punto di vista che rimanda al concetto di simulazione: forme e segni appaiono “come se” fossero stati creati al computer ma in realtà sono ottenuti grazie a una concomitanza di tecniche pittoriche – dalla stesura a pennello alla pittura spray – che rivendicano una matrice prettamente analogica. La freddezza e la precisione della codificazione digitale lasciano spazio così all’imprevisto dato dall’azione umana: tuttavia, il risultato finale mantiene un forte rimando all’elaborazione digitale, costringendo a interrogarsi sulla provenienza e lo statuto di queste immagini. Ad aumentare tale senso di straniamento sono alcune soluzioni adottate dall’artista: la scansione della superficie in sfondi dal colore diverso, che evoca la compresenza di dimensioni differenti; il riempimento delle forme con effetti che rimandano a texture pixellate; le linee spezzate che imitano un’interruzione del segno. Per descrivere la sua pratica, l’artista ricorre spesso alla parola inglese “blur”, in italiano “sbavare”, “offuscare”, “sfocare” ma anche “confondere”. Ed è proprio nel solco dell’equivocità tra la fugacità del digitale e la tangibilità del reale che Beck opera con la creazione di questi nuovi dipinti: un gioco forse, ma anche un rinnovato invito a diffidare delle tante immagini che ci circondano.

Alessandra Troncone